Cari fratelli Laziali,
domenica sera ci siamo fatti male. Ci siamo fatti male da
soli e questo rende il nostro campionato ancora più anonimo. Esattamente due
anni fa scattava il lockdown, un termine che ora sembra improvvisamente passato
di moda – surclassato, quanto a gravità, dai venti di guerra provenienti
dall’Est Europa. Perché la peggiore delle pandemie è sempre meno grave di una guerra,
fosse pure la più stupida e breve.
Due anni fa eravamo primi in classifica: siamo tra coloro i
quali affermano che, se il Coronavirus non avesse mai fatto la comparsa,
avremmo vinto lo scudetto o comunque lottato fino in fondo per conquistarlo.
Uno scudetto che avrebbe sancito la vittoria della squadra ma soprattutto della
Società, della politica che il presidente Lotito ha impostato sul rigore
economico e sulle ortodossie degli indici di bilancio.
Oggi, con la stessa onestà intellettuale, dobbiamo ammettere
la sconfitta sia dell’una che dell’altra.
Al 27 febbraio siamo fuori da tutti i giochi. Nessuno può
sentirsi immune da responsabilità: non il tecnico, non i giocatori, dai
titolari ai rincalzi. Quanto alla Società, per l’ennesima volta ha rinunciato a
fare mercato. In più, molti giocatori sono con la valigia in mano. Taluni
rivestono ruoli determinanti, come quello del portiere.
Il nostro grande pensiero va alla tifoseria, che non è stata
coccolata abbastanza in un momento così difficile a livello di congiuntura
economica. Ancora una volta, il tifoso si è sobbarcato spese elevatissime pur
di non far mancare il suo supporto alla squadra, in casa e fuori. Questo popolo
così affezionato meriterebbe una squadra con un’altra classifica. Attualmente
siamo in corsa per la Conference League, che rappresenta la Serie C delle coppe
europee.
Di momenti bui ne abbiamo vissuti tanti ma oggi siamo molto
delusi.
Per l’amarcord in vista dell’incontro di sabato sera abbiamo
scelto di ritornare al 24 febbraio 1980.
È un tempo di mezzo, non siamo ancora negli Anni
Ottanta ma nemmeno nei Settanta. Sarà l’ultimo anno senza gli stranieri, senza
le scritte degli sponsor sulle maglie.
Abbiamo la sensazione che la Lazio stia giocando un
campionato strano. A volte, i giocatori sembrano giocare con sufficienza. C’è
una totale mancanza di continuità: non che la stagione precedente sia stata
molto diversa, ma almeno fino ad aprile eravamo stati in corsa per un posto in
coppa Uefa. Avete presente la sensazione di un’automobile che cammina col freno
a mano tirato? Ecco, l’immagine della Lazio del Campionato di Serie A 1979-80 è
esattamente questa.
Domenica 24 febbraio siamo a Cagliari. È la ventunesima
giornata. I sardi sono allenati da Bruno Tiddia, il quale manda in campo questo
undici: Corti, Lamagni, Longobucco, Casagrande, Canestrari, Roffi, Bellini,
Quagliozzi, Selvaggi, Marchetti e Briaschi.
Bob Lovati ha la formazione tipo: Cacciatori, Tassotti,
Citterio, Wilson, Manfredonia, Zucchini, Manzoni, Montesi, Giordano, D'Amico e
Viola. In panchina vanno Avagliano, Garlaschelli e Pighin.
Per noi si mette male già dopo cento secondi: il
giovane Briaschi fugge in contropiede e porta in vantaggio la sua squadra. Noi
siamo come imbambolati, fermi sulle gambe. E dire che ai locali mancano due
totem come Brugnera e Piras. Siamo confusionari, storditi dal forte vento che
spazza via la polvere della Sardegna e dallo stadio. Si gioca su un campo
gibboso come un piazzale per un campeggio scout. Il nostro numero 8 è Maurizio
Montesi, ritratto nella foto con Umberto Lenzini. È molto diverso dagli ultimi due titolari della maglia:
all’indimenticabile Luciano Re Cecconi era succeduto Andrea
Agostinelli; è il più bello di tutti e sembra un rimedio del buon Dio per
restituirci il nostro angelo caduto in volo. Per tutto il 1977 e il 1978,
nell’osservare Agostinelli scendere lungo la fascia, ci è sembrato di cogliere Cecco
in una delle sue scorribande in mezzo al campo. Con i suoi capelli scuri e il volto un po’ scavato, Maurizio Montesi
sembra invece un chitarrista folk. Sul volto ostenta spavaldo un ironico paio
di baffi: sembra un letterato di fine ‘800 o meglio, un cantante alla Stefano
Rosso, quello dello spinello e della “storia disonesta”. Siamo
al quarto d’ora del primo tempo: nel tentativo di recuperare un pallone a
centrocampo, Maurizio Montesi si protende in un inopportuno tackle su Bellini.
Questi è in netto vantaggio, Montesi non riesce a togliere la gamba perché sta
viaggiando a cento all’ora. L’impatto è inevitabile e il risultato è nefasto
per lui: frattura della tibia e del perone della gamba destra, stagione finita.
Forse, qualcosa di più. Entra in campo Renzo Garlaschelli. Insieme a Vincenzo
D’Amico e a Pino Wilson, è uno degli ultimi pezzi della grande Lazio che fu.
Con il trascorrere dei minuti ritroviamo il nostro assetto: gli
esperti Viola e D'Amico sono ben supportati dal giovane Mauro Manzoni, un quasi
esordiente. Il Cagliari inizia a rallentare ma riesce a rientrare negli
spogliatoi in vantaggio per 1 a 0. Nella ripresa la Lazio parte in attacco e si
mantiene costantemente in possesso del pallino del gioco. Il Cagliari sceglie
di giocare soltanto in contropiede, restano tutti indietro a difesa di Corti e
della sua porta.
Bruno Giordano è reduce da una tonsillite. Giovedì notte stava
con 39 di febbre ma oggi sembra stia meglio di tutti. È magrissimo ma appare molto
“fisico”, nel suo incedere palla al piede con il busto spostato all’indietro, ricorda
moltissimo Johan Cruijff. Abbiamo
già perso le speranze quando scorgiamo Bruno Giordano intento a dribblare mezzo
Cagliari, lungo la fascia destra del campo, e improvvisamente lo vediamo convergere
al centro, ed entrare in area di rigore. È il 33' del secondo tempo: ha fatto
un dribbling splendido, una roba alla Maradona per darvi l’idea, ma si è
allungato troppo il pallone, anche perché Corti è uscito molto bene chiudendogli
quasi tutto lo specchio. Bruno, quasi da fondo campo, lascia partire un
diagonale che s’insinua nell’unica “luce” rimasta, un rasoterra che è quasi un
lungolinea, molto simile alla prodezza effettuata anni prima a Torino, quando
superò il portiere granata con un tiro impossibile scagliato in prossimità della
bandierina del corner. Stavolta centra l’ultimo spiraglio rimasto aperto sul
secondo palo, ingannando Corti che – come tutti noi comuni mortali - si
aspettava il tiro sul palo più vicino.
A sera, guardando e riguardando il gol di Giordano a
Domenica Sprint e alla Domenica Sportiva, sognammo di risalire la corrente,
battere la Roma al Derby e piazzarci al quinto posto, per una qualificazione
alla Coppa Uefa che a quel tempo era più affascinante della Champions League
dei giorni nostri. Avevamo perso Maurizio Montesi: ma chi si sarebbe ricordato
dei suoi baffetti rétro, del suo modo così atipico di concepire la Vita,
distante anni luce dal prototipo di giocatore di calcio? Purtroppo, non avremmo potuto ignorare quella “storia
disonesta” che aveva provato a raccontarci.
I nostri sogni non solo rimasero tali ma si trasformarono in
incubi. La stagione terminò come peggio non si sarebbe potuto immaginare.
Sembra passata un’era. La Lazio di oggi, anche quando attraversa periodi anonimi come quello attuale, è forte e ben organizzata. Mancano ancora molte partite e cerchiamo di salvare il salvabile cominciando a vincere a Cagliari. Forza Lazio!
Ugo Pericoli