Cari
fratelli Laziali,
abbiamo
concluso al meglio la settimana più difficile della stagione.
Archiviato
il pomeriggio kafkiano con la Salernitana, digerito l’indigesto merluzzo
olandese e la retrocessione in Conference League (competizione dal nome
altisonante per una “Scarsescion Lig” di cui non si sentiva francamente
il bisogno), siamo arrivati alle diciotto di domenica con il cuore in cantina e
la testa in cerca di rivalsa.
Vogliamo dirvi
che i giocatori hanno interpretato al meglio i nostri sentimenti, vincendo un
derby dal sapore anni Settanta, in modo sporco, quando chi segnava per
primo vinceva. Abbiamo vinto la partita più difficile con il risultato meno
presente nei nostri tabellini: 1 a 0. Perché noi siamo storicamente
incapaci di conservare il vantaggio minimo, non sappiamo difenderci e
proteggerci, le partite sappiamo solo stravincerle quando i cieli sono azzurri.
Cosa sarebbe successo se avessimo perso? Non osiamo neppure pensarlo e ci
tuffiamo nel ricordo che anticipa la prossima partita, alla quale non mancano
ormai che poche ore. Torniamo indietro al 10 maggio 1981, ad un Lazio Monza che
è quasi un testa-coda.
È una delle
Lazio più piccole di sempre quella di Aldo Lenzini. Veste però una
maglia bellissima, di quelle che si vedono il mercoledì sera, quando è quasi
notte e sul Secondo va in onda Eurogol. È un maggio tiepido ma in
curva abbiamo le mani fredde, perché temiamo di non farcela a ritornare in
serie A.
Ilario
Castagner può
contare su una rosa affatto modesta per la categoria: Marigo, Spinozzi, Ghedin,
Perrone, Pochesci, Citterio, Viola, Bigon, Garlaschelli, Mastropasqua e Greco. In
panchina vanno Nardin, Pighin, Simoni, Cenci e il povero, indimenticato, Stefano
Chiodi.
Il Monza,
guidato da Alfredo Magni, è caratterizzato dalla presenza degli ex gemelli del
gol della Fiorentina anni Settanta, Monelli&Massaro e su una nostra
futura conoscenza, Antonio Elia Acerbis.
La
formazione del Monza: Motta, Viganò, Colombo, Cesario, Pallavicini, Maselli,
Acerbis, Monelli, Massaro e Ronco.
Sugli spalti
siamo in ventimila, in molti sono rimasti a casa. In curva, ogni dieci tifosi,
ce n’è almeno uno con la radiolina tra le mani. Non riusciamo a seguire la
partita che scorre anonima sotto i nostri occhi. Perché il Monza è candidato
alla serie C già da parecchie domeniche, perché ci sono da gufare le altre
pretendenti alla promozione, Genoa e Cesena; ed anche perché a Torino si sta
giocando Juventus Roma. Temiamo che la Roma possa ottenere un risultato
importante in una partita decisiva per lo scudetto. Insomma, abbiamo tante ottime
ragioni per seguire la partita alla lontana, e quando il signor Fernando
Tani della sezione di Livorno fischia la fine del primo tempo, prendiamo
coscienza che abbiamo intravisto una Lazio bruttissima e che non possiamo
fingere di ignorarla nel secondo tempo. Nel mentre, la fischiamo con forza,
perché pensiamo di meritarci non solo l’immediato ritorno in A ma anche delle
domeniche pomeriggio meno angoscianti.
Nel secondo tempo aspettiamo un gioco che non c’è. Anzi, vediamo il Monza, che gioca con la consapevolezza di non avere più nulla da perdere. Il suo gioco scorre scolastico, sotto i marmi deserti di una Monte Mario più silenziosa che mai. Assistiamo a due contropiedi pericolosi che ci irritano non poco e i nostri fischi diventano continui: siamo frustrati, non si può restare indifferenti ad uno spettacolo così scarso.
Manca meno di mezz’ora, non vincere significherebbe non essere promossi. In un’azione leggermente più convinta avviata da Bigon, nasce una mischia in area con un intervento sospetto su Greco. Il pallone perviene a Fernando Viola, che non ci pensa due volte a scaricarlo rabbiosamente nella porta sotto la curva Sud. Con il gol di vantaggio ci si aspetterebbe un Monza ancora più dimesso e invece iniziamo a cincischiare a centrocampo, sbagliando passaggi in modo inspiegabile. Un atteggiamento insopportabile: manca ancora una ventina di minuti quando si odono sussulti di preoccupazione in tutti i settori dello stadio. Si vocifera che la Roma sia passata in vantaggio.
È il minuto numero 72: la Roma ha segnato con Maurizio Turone ma la rete è stata annullata. Con le mani ancora più fredde riprendiamo a seguire la Lazio, assistiamo a passaggi sciatti, a palloni mandati goffamente in fallo laterale, a finte inconcludenti di un Renzo Garlaschelli nella malinconica versione Sunset Boulevard. Si sente la mancanza di uno come Vincenzo D’Amico, mandato a Torino sponda Granata per un miliardo di lire, che ha sì salvato il bilancio ma indebolito il livello qualitativo del gioco in modo più che proporzionale al guadagno. Per sostenere quel centrocampo così asfittico, si staccano dal reparto per cui sono deputati i difensori, ritratti nell’inconsueta immagine in bianco e nero (fonte LazioWiki.org) che accompagna il nostro articolo; la partita è strana, illeggibile, inclassificabile. Indietro resta il solo Spinozzi, Citterio si è stancato di subire quella risma di errori e ha deciso di fare di testa sua. Nessuno lo marca mentre si sgancia, poi, una volta sulla trequarti, gli si fanno incontro due difensori.
In curva Nord ci aspettiamo al massimo un
tiro di alleggerimento, Filippo Citterio è partito tra i fischi - pochi
istanti prima il Monza ha effettuato un ennesimo contropiede - il suo tiro è di
quelli magici, col contagiri, è un gol alla Sergej Milinković-Savić, da
vedere e rivedere, un colpo di biliardo che gonfia la rete per due volte con un
doppio rimbalzo a rientrare. È l’80° minuto, da quel momento in poi riprendiamo
a seguire solo le altre partite. Cesena e Genoa stanno impattando
i loro derby, rispettivamente contro Rimini e Sampdoria. È una
domenica in chiave Lazio. E la Roma? Usciamo dallo stadio nervosamente,
con la radiolina incollata all’orecchio. Il suono arriva indebolito, l’abbiamo spremuta
per due ore e le pile sono quasi scariche. Nel cicaleccio della folla ci
arrivano due conferme: che Juve Roma è finita 0 a 0 e che il gol de Turone era
bono.
È in arrivo un turno apparentemente in chiave-Lazio. Umiltà, i tre punti non ce li portiamo da casa. Forza Lazio!
Ugo Pericoli