Cari fratelli Laziali,
avremo pure sbagliato campagna-acquisti, inciampato in un paio di occasioni se non tre, ma quando abbiamo visto Ciro Immobile librarsi in aria come un guerriero antico siamo saltati dal divano insieme a lui, abbracciando un vicino di posto in uno stadio che non c'è.
Cosa è successo a Ciro? Sembra lievitato, più consapevole, più spietato sotto porta. La partita dura novanta e più minuti, ma il gol è questione di un attimo. In questo, come direbbe Vecchioni, assomiglia un po' alla vita, con la Lazio che ci è sempre stata qui davanti. Per noi, ancora storditi dalla mancata ripartenza dal primo lock down del giugno scorso, che ci è costata (almeno così piace pensarla a noi) la vittoria del terzo scudetto, solo domenica sera, e abbastanza inaspettatamente, abbiamo riassaporato il sapore di una bella vittoria in campionato, condotta in porto senza nemmeno troppa fatica da una squadra molto simile a quella di un anno fa.
Tra poche ore i nostri incroceranno il Milan a San Siro. Loro hanno più da perdere rispetto a noi che - tutto sommato - stiamo ancora abbastanza staccati. Per il ricordo di oggi ci è tornata in mente una Lazio di quasi 45 anni fa, spietatamente giovane e quasi irritante, animata da una bellezza dissoluta che rispondeva soltanto alla legge dell'incostanza.
Eravamo nel bel mezzo di un "ponte" di primavera, il 24 aprile 1977, e andavamo a Milano a giocarcela contro il Milan per la ventiseiesima giornata del Campionato di A 1976-77.
Quel pomeriggio a Milano splendeva il sole. Era una Lazio in crescita: dopo aver chiuso nel peggiore dei modi il mese di marzo (bruciante sconfitta nel derby di ritorno per 1 a 0, splendido gol di Bruno Conti, l'unico tiro dei giallorossi in tutta la partita) nel mese successivo abbiamo inanellato una serie di risultati molto positivi, ottenuti mantenendo un profilo basso e giocando a fari spenti.
Diciamo che la "Lazietta" di Vinicio non riscuoteva troppi consensi. D'altronde, Juventus e Torino stavano giocando un Campionato a parte, una sfida iniziare l'anno prima, quando il Torino di Gigi Radice aveva illuminato il Campionato con la fiaccola dell'autarchia, ultime luci di un calcio romantico alimentato dal fuoco della classe operaia.
Andammo a Milano con la leggerezza di chi non ha molto da chiedere e neanche molto da perdere. Il Milan era in uno stato di involuzione totale. Non vinceva più uno scudetto da molti anni sebbene annoverasse tra le sue fila giocatori di fama internazionale come Rivera, Albertosi e Capello. C'era poca gente allo stadio, un po' per gli scarsi risultati della squadra di casa, un po' perché erano anni difficili, caratterizzati dall'allarme del terrorismo, dalla crisi economica, sociale e industriale, che una città "pulsante" come Milano aveva la capacità di accelerare essendo la capitale finanziaria del Paese.
Era un altro calcio, semplice e meraviglioso. Il Milan era allenato da un personaggio ottocentesco. Si chiamava Nereo Rocco. Schierò la formazione tipo: Albertosi, Collovati, Maldera, Anquilletti, Bet, Biasiolo, Morini, Capello, Bigon, Rivera e Calloni. Tutte vecchie volpi, due vicecampioni del Mondo di Mexico 70, e solo un imberbe riccioletto ventenne, che si sarebbe messo in mostra di lì a poco: Fulvio Collovati.
Luis Vinicio aveva lasciato le colline del Vomero per accasarsi a Collina Fleming. Mandò in campo il meglio che aveva in rosa, nella quale aveva definitivamente incluso tre giovani primavera: Pulici, Ammoniaci, Martini, Polentes, Manfredonia, Cordova, Renzo Rossi, Agostinelli, Giordano (questi ultimi due sono ritratti nella foto che proponiamo), Viola e Badiani. Si accomodò in panchina. Accanto a lui, il secondo portiere Garella, poi Ghedin e Totò Lopez.
I rossoneri partono sparati. La prima occasione però capita a noi intorno al 10° minuto, quando Agostinelli, imboccato da Giordano, cincischia sul più bello. Sul rovesciamento di fronte prendiamo goal. Lo segna Bigon di testa, abbastanza immeritatamente per quanto si era visto fin lì, raccogliendo un cross di Calloni su calcio d’angolo. Insomma, il Milan appare finalmente concentrato dopo mesi di costante abulia, noi siamo sorpresi dalle loro ripartenze brucianti.
Reagiamo: al 20' Renzo Rossi scalda le mani ad Anquilletti che riesce a respingere sulla linea. Segna ancora il Milan al 24' ma il signor Agnolin da Bassano del Grappa è - come assai spesso gli capita - ben piazzato e annulla senza esitazioni. L’inesperienza della Giovine Lazio è ispiratrice della frittata della mezz’ora: c’è un fallo su Bigon fuori dall'area di rigore. Noi restiamo con la barriera immobile, composta anche da Giordano e Agostinelli, che non si sono accorti che Fabio Capello ha già passato il pallone a Gianni Rivera. L’Abatino, come sarcasticamente l’apostrofava Gianni Brera, sferra uno dei suoi diagonali, di quelli mortiferi, e il nostro Felice ci resta secco. Verso la fine del primo tempo proviamo a rimediare.
Errore di Rivera, palla a Viola, tocco a Badiani, gran tiro di Giordano, per uno dei primi goal del centravanti che “sostituì” Chinaglia nel cuore dei tifosi. Secondo tempo. Calloni manca clamorosamente la terza rete: cross di Rivera, il milanista aggancia il pallone e pur trovandosi solo davanti a Pulici tenta la botta ad effetto, ma sbaglia mira, invece di appoggiare di piatto in rete. I milanisti, che ancora rimpiangono l’angelico Pierino Prati, gli urlano di tutto. Siamo intorno al 20°, la meglio gioventù laziale sta sbocciando alla distanza. Le bionde chiome di Andrea Agostinelli hanno il potere di non scompigliarsi troppo, mentre il numero 8 crossa verso il centro in cerca dell’accorrente Giordano: è il 2-2. La Lazio può iniziare la rincorsa verso un impensabile piazzamento UEFA.
Fu una grande annata, anzi sarebbe corretto dire, fu una magica Primavera. Dalla sconfitta del derby, a fine marzo, sbocciarono i fiori di Agostinelli, Manfredonia e Giordano. L'aprile e il Maggio del '77 costituirono un unicum irripetibile perfino per l'autarchico calcio della seconda metà del secolo scorso: mai più si sarebbero visti tutti insieme tre elementi provenienti dalla squadra primavera scalare le gerarchie di una formazione di Serie A.
Oggi è un calcio diverso, forse è proprio un altro sport e non ce ne siamo accorti. Eppure, è ancora in grado di accenderci e di sorprenderci, come nei primi minuti di Lazio-Napoli quando Ciro Immobile è salito in cielo per farci vincere la partita. Poi ha rubato palla, l'ha passata a Luis Alberto che, sempre nel giro di un attimo, l'ha messa dentro senza neanche fargli toccare terra. Poi è corso ad abbracciare Simone Inzaghi, riportandoci al flash di un attimo che c'innamoro' quasi cinquant'anni fa: il Chinaglia, grande e grosso, in braccio a papà Maestrelli. È proprio così, il calcio è come la vita, dove un attimo può essere per sempre.
Forza Lazio!
Ugo Pericoli (foto tratta dall'archivio-Geppetti, che ringraziamo)